Era una persona arguta, tranchant, come si dice. Un vero guerriero della cultura. Un educatore fatto e finito.
Era capace di riconoscere a occhio nudo, tra venti versioni dello stesso quadretto (La Madonna dei garofani) di Raffaello -tutte false- quella che più si avvicinava all’originale (ipotetico). E si scagliava, muso duro e lancia in resta, contro le ipocrisie che dominano il mondo della storia dell’arte e del cosiddetto expertise: “i grandi conoisseurs -come Roberto Longhi, Bernard Berenson, Giovan Battista Cavalcaselle– non ci sono più: l’idea rigorosa di quel mestiere (l’attribuzione) non esiste più, è morta o quasi.
Beck credeva praticamente solo nel monitoraggio scientifico dell’opera d’arte, e in qualche pulitura occasionale, molto occasionale, ma mai troppo approfondita. Per il resto, condannava in toto la pratica, ogni pratica, del restauro (“Gli umanisti credono alla scienza perché non ne capiscono niente. Questa non è più scienza, ma è un tratto dell’arroganza tipica del mondo storico-artistico. Egli altri –tutti ‘sicofanti’- hanno accettato senza discutere”). Tale atteggiamento non gli ha certo guadagnato molti amici nel corso degli anni all’interno della famigerata torre d’avorio, ma la stima profonda e sincera di alcuni, grandi e piccini, questa sì.
Del resto, come non avere simpatia e rispetto per un vecchio signore dai capelli bianchi che, di colpo, s’inalbera e s’imbufalisce al solo sentir p arlare del David o della Cappella Sistina, o dell’ultimo acquisto scellerato del tal prestigioso museo internazionale?
Eh sì, Beck era uno che prendeva a cuore ogni singolo argomento di cui si occupava, e per questo ci mancherà. Non se ne trovano più mica tanti di critici ed intellettuali così, dalle fortissime passioni ma dalle debolissime esigenze quotidiane. Il suo più grande piacere era venire in Italia, in Toscana, e parlare italiano. E lo parlava benissimo, altroché: molto meglio di tanti professoroni oriundi.
Infine il problema culturale, secondo questo grande storico dell’arte e conoscitore del Rinascimento, era più ampio rispetto alla disonestà intellettuale di questo o quel funzionario museale, arrivando a coinvolgere l’intera percezione contemporanea delle immagini, cioè “l’attuale, gravissima incapacità di vedere, che è alla base del disastro del restauro. Oggi tutti guardano la TV a colori, i film a colori, i segnali stradali a colori, il computer a colori, e non possono ovviamente più ‘vedere’ un quadro: ormai, con questo orientamento, è molto difficile vedere questi cambiamenti così piccoli, anche volendo. Tutto questo, in un’atmosfera storico-artistica in cui piacciono l’iconografia, il marxismo dell’arte, gli studi sul gender: tutto validissimo, ma prima occorre vedere, perché non puoi fare niente se prima non vedi”.
cc